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sabato 30 giugno 2007

Millennium Actress (Chiyoko Millennial Actress), di Satoshi Kon.


Un mio amico mi ha fatto presente l’esistenza di questo nuovo guru dell’animazione giapponese di cui non sapevo quasi nulla fino a poco tempo fa. Decisa dunque a farmi una cultura filmografia su di lui ho cominciato col vedere questo suo secondo lungometraggio animato che si è rivelato comunque totalmente inaspettato, in special modo per la sua forma.

La storia è presto detta: in occasione della demolizione degli studi cinematografici Ginei, il regista Genya e il cameraman Kiyoji decidono di realizzare un documentario dedicato all'attrice più rappresentativa di tali studi: Chiyoko Fujiwara. La donna, ormai anziana e ritiratasi dalle scene, accetta di essere intervistata dai due; durante l'incontro Genya restituisce all'attrice una misteriosa chiave, oggetto a lei molto caro ma creduto perduto da tempo. Anche grazie ai ricordi fatti scaturire dal ritrovamento del prezioso oggetto (che diventa in maniera piuttosto prevedibile chiave della porta del tempo), Chiyoko inizia a narrare la sua storia, in cui la carriera d'attrice si lega indissolubilmente all'amore idealizzato per un giovane pittore conosciuto fugacemente e mai dimenticato. Nel corso del racconto, la memoria della donna confonde la realtà con la finzione dei film da lei interpretati e così un'unica storia d'amore e di vita vissuta viene narrata attraverso diverse epoche, luoghi e ruoli. La Storia con la S maiuscola diventa allora quella di una sola persona, e viceversa. Quella che viene raccontata, attraverso una struttura temporale e spaziale assai articolata ed originale, è alla fine la storia dell’eterna ricerca dell'amore, anzi, del senso dell’amore più che altro in quanto ricerca di altro da sé, ma attraverso un millennio di Storia giapponese. I piani narrativi e temporali variano continuamente con l'avvicendarsi delle ambientazioni e delle epoche storiche e la cosa che forse mi ha colpita di più, più della storia in quanto omaggio al cinema, all’arte e alla recitazione, è proprio questo senso del tempo che ne deriva, estremamente dilatato, reiterato, manipolato e sconvolto. E’ un tempo che ti si incolla addosso, che si trasforma in residuo percettivo e che permane anche dopo che l’anime è bello che finito. Un tempo centripeto, reso perfettamente, trascinante e vorticoso nella vicenda, ma anche nella visione del film, che si rivolge letteralmente su se stesso, che dà la netta sensazione del ricordo, in un eterno confondersi tra i tempi. Guardare questo film è stato un po’ come entrare in una spirale…particolarissimo, ed ennesima testimonianza di quale efficiente manipolatore della temporalità possa essere il cinema o l’audiovisivo in generale. In quanto attrice, la protagonista Chiyoko non può che raccontare la sua storia personale attraverso i film da lei interpretati: storici, melodrammatici, di guerra, di fantascienza, ma con innumerevoli virtuosismi di regia, il racconto passa dall'epoca dell'espansionismo militare giapponese (realmente vissuto da Chiyoko in gioventù) all'epoca del Giappone feudale (ovviamente vissuto soltanto nei film), al periodo Meiji, al futuro, agli anni ‘50, in un avvicendarsi di finzione filmica e realtà storica che, nella memoria dell'anziana donna, sono una cosa sola. É l'amore che muove la storia di Chiyoko: tutto è spinto dalla passione in questo film e la stessa vicenda narrata perde importanza di fronte al sentimento d’amore assoluto che la sintetizza e che in effetti il film comunica, talvolta esagerando.

Di questa intensa narrazione, il regista e l'operatore non sono semplici ascoltatori: con una felice e divertente trovata, anche i due intervistatori si trovano sempre nel bel mezzo dell'azione, anch'essi attori in questa “Storia di tutte le storie”. Al termine dell'intervista, la Storia con la S maiuscola e la storia personale di Chiyoko si incontrano nel presente, che è soltanto un punto di partenza per un nuovo futuro, simboleggiato dal ritrovamento della chiave perduta che Genya restituisce alla donna. Tale futuro vedrà di nuovo l'incontro tra la finzione e la realtà. Alla fine, infatti, ciò che emerge dalla storia di Chiyoko (sia il suo passato raccontato che il suo presente e futuro) è lo scorrere della Storia e della vita e di conseguenza anche l'ineluttabilità della vecchiaia e della morte, ma nella visione ottimistica e circolare di Kon, la morte non è che un nuovo inizio e una diversa prosecuzione di quella stessa ricerca d'amore che aveva sempre mosso e portato avanti la vita di Chiyoko.

Pur non eccelsa, l'animazione di Millennium Actress è comunque di ottimo livello, ma quello che più colpisce dell'aspetto visivo del film è la grande bellezza dei fondali e la genialità di certe scelte cromatiche ed artistiche. Mi riferisco soprattutto alle scene in cui Chiyoko attraversa la Storia camminando attraverso quadri, stampe, immagini, riproduzioni disegnate di foto in bianco e nero (illuminate solo da alcuni sprazzi di colore, ad esempio il bianco-rosso delle bandiere giapponesi), pitture in stile primo novecento per il periodo Meiji, e così via. Curiosa anche la colonna sonora del compositore techno-electro Susumu Hirasawa, spesso in contrasto con le immagini.

In conclusione il film non nasconde certo le proprie alte ambizioni e ci è mancato poco che non diventasse un cervellotico e presuntuoso esercizio iper-intellettualistico, ma per fortuna resta in primo luogo un appassionante film d'amore e avventura, con molte belle trovate visive, qualche alleggerimento comico e nessun momento di noia. Certo, è un film che si può gustare appieno solo se si mette in moto il cervello, ma anche senza capirne tutte le sottigliezze e le simbologie, è assicurato un bello spettacolo, senza dubbio intelligente. Resta il sospetto di un po' di compiacimento, il film può non piacere proprio perché più che agire a livello di sceneggiatura, lo fa su un piano simbolico e temporale, ma ha comunque la mia opinione positiva.

martedì 22 maggio 2007

Blood-The last Vampyre: cominciamo parlare di Anime

Ho rivisto di recente questo mediometraggio animato che intravidi anni fa senza dimenticarne le immagini impressionanti, ma avendo rimosso completamente nome e contenuto. Rivendendolo ho capito perché e ho deciso di dedicarmi con fervore alla visione della serie televisiva che ne è stata tratta (Blood+) e che attualmente è visibile solo in Giappone, ma che un gruppo di fan chiamato Full Metal Alcoolist ha deciso di diffondere sottotitolato in italiano. Mi sono detta, visto che su questo blog si parla di moltissime serie Tv, che tra l’altro conosco poco perché non le amo moltissimo, o che forse semplicemente non conosco, che sarebbe bello parlare anche di Anime (e di meravigliosi ne conosco una valanga) e di serie manga! Dato che pecco in serie tv ma ho visto tonnellate di cartoni animati, da oggi verserò il mio contributo in questo senso.

Parlando invece di Blood, the last vampyre, ecco la vicenda. Anni sessanta. Yokota, base militare americana in Giappone. Alla vigilia dello scoppio della guerra del Vietnam, un gruppo di agenti segreti giunge dagli States per far luce su alcuni misteriosi casi di suicidio avvenuti fuori e dentro la base. Tra questi uomini in nero c'è anche Saya, una giovane dal volto perennemente corrucciato, che nasconde dietro all'immagine di comune liceale un'attività di cacciatrice di vampiri. E proprio ai vampiri si devono queste morti sanguinose; vampiri (o chirotteri) che si nascondono tra i comuni soldati o addirittura tra i loro famigliari. A fare da spettatrice a questa cruenta caccia al demonio, che per ironia della sorte avrà luogo durante la festa di Halloween, sarà una mite dottoressa che, dopo aver aiutato Saya nell’impresa, sarà costretta a negare tutto alle autorità. Blood the last vampire è definita come l'opera più commerciale e disimpegnata a cui l'Oshii autore, per inciso quello post-Lamù, ha prestato il suo nome. Il mediometraggio è diretto da Kitakubo Hiroyuki e fa parte di un progetto "multimediale" concepito dalla I.G Production, comprendente anche 3 romanzi (il primo dei quali, La notte delle bestie, scritto appunto da Oshii), un manga, e un video-game per la Playstation 2. L’idea di sviluppare una storia su un piano narrativo multimediale non rappresenta di certo una novità nel panorama Giapponese (e non solo) e lo stesso Oshii aveva già lavorato in tal senso creando insieme al team di Headgear la lunga saga di Patlabor sviluppatasi negli anni in Tv, in Home Video e al cinema, oltre che in edicola sotto forma di manga. La production I.G. continua a sfornare lavori decisamente interessanti. Basti pensare a Jin Roh, alla serie Stand alone complex di Ghost in the shell. L’impronta fondamentale nella realizzazione di questo anime è fornita da Mamoru Oshii, già autore di Ghost in the shell, dei due film di Patlabor e del recente live action Avalon, presentato al festival del cinema di Cannes. Venendo a mancare la conoscenza di quanto narrato nei romanzi, nel fumetto e nel video-game la visione del film si riconduce unicamente ad un semplice svago di 48 minuti (di buona fattura, questo sì), che non fornisce allo spettatore nessun indizio circa i personaggi e il loro background, e che ci offre un falso finale senza alcuna risposta (lasciando davvero sulle spine). Un'occasione mancata insomma, almeno fino al momento in cui il Blood Project non troverà una distribuzione completa in occidente, soprattutto in America dove il film è già stato distribuito nelle sale cinematografiche.

Blood è stato presentato come il primo anime interamente realizzato in digitale. Sono stati combinati due tipi di animazione diversa: quella tradizionale su rodovetro (applicata però al supporto digitale e non alla pellicola) e la moderna Computer Graphic 3D. Il tratto è originalissimo e atipico per un anime, assai ricco di dettagli, è ammirevole l’uso delle luci e delle ombre, che sfruttano le migliaia di sfumature messe a disposizione dalla grafica digitale, assolutamente indispensabili all'atmosfera transilvanico-gotica che si è desiderato ricreare nell'ambiente militare della base americana. Questo anime è stranamente affascinante, tanto da colpire lo spettatore alla prima visione. Innanzitutto lo stile si allontana da quello tipico dell’animazione giapponese, avvicinandosi invece a quello del cinema, dalle parti di Kitano. Difatti la prima parte del film, escluso il folgorante incipit, è costellata di numerosi tempi morti, che accumulano azione col passare del tempo, la quale esplode poi in tutta la sua violenza nella parte conclusiva della pellicola.
Il lato tecnico è stupefacente: i colori sono sfumati, caldi, soffusi, in modo da rendere le sequenze scure come l’animo delle creature assassine e da disorientare per quanto riguarda la collocazione temporale, restituendo in maniera immediata l’idea di un personaggio fuori dal tempo, proveniente, come capiamo da una vecchia foto della famiglia Vampyre, da un passato remoto e destinata a vivere sempre le stesse esperienze, a sterminare, in ogni tempo, forse il suo stesso genere. L’ambientazione rimanda agli anni cinquanta, o a quelli legati alla fine della seconda guerra mondiale, ma alcuni elementi discordano con questa teoria, lasciando lo spettatore ancora una volta in una condizione di dubbio. La regia è fortemente realistica, non ci sono inquadrature “impossibili” da riprodurre nella realtà, forse per dare maggiore solidità alla storia, per renderla più credibile. D’altronde non si può classificare Blood the last vampire come un semplice film sui vampiri. La profondità dell’approccio eleva il discorso affrontato su di un piano che prevede riflessioni filosofiche e sociologiche, in particolar modo è posto l’accento sul concetto di razzismo, sulla futilità della guerra (discorso che verrà portato avanti moltissimo nella serie Tv, parlando della guerra in Vietnam e del rapporto forzato con gli Stati Uniti che il paese vive come un peso ancora oggi). Questo risvolto non è immediatamente chiaro, solo nel finale si intuisce il vero senso dell’opera, nel gesto simbolico della protagonista, apparentemente fredda e meccanica, considerabile un efficientissimo strumento da guerra, che vive una profonda ed inaspettata pietà per il chirottero che ha appena ucciso, quasi potesse capire le sue ragioni e suoi bisogni, facendogli bere il proprio sangue (anche se si vede poi nella serie come il sangue di Saya sia veleno per i vampiri). L’aiuto che lei fornisce va al di là delle mere considerazioni di tipo morale, tocca una sfera più universale, cioè la necessità di saper convivere con il prossimo, vanificata dalla natura umana, che, spietata ed egoista, soddisfa la regola della scelta razionale. Tutto ciò porta l’uomo a distruggere il proprio simile, in un’apoteosi di violenza insensata, la cui essenza storica è rappresentata dalla guerra. Le immagini che fanno da sfondo ai titoli di coda mostrano momenti bellici: il vero vampiro, si sa, è l’uomo stesso, alla continua ricerca di sangue altrui e di soddisfare i propri istinti omicidi.

Un’anime che mi ha colpita per la fattura, per le immagini potenti e commuoventi oltre che tanto particolari da disorientare un po’, che sottendono a ricerche formali, come quella sul colore, che sembrano appartenere molto più al mondo dell’illustrazione francese che a quello delle serie giapponesi, ma anche per la vicenda che si lascia solo intravedere e che sviluppata poi nella serie si dimostra capace di raccontare anche la Storia oltre che un’avventura romantica. Peccato davvero che il film visto così, senza il suo contesto produttivo, presenti moltissime lacune narrative (altrimenti si sarebbe affermato come piccolo capolavoro, dal mio punto di vista), perché tutto sommato anche con pochi tratti era riuscito a rendere la psicologia dei personaggi. Si lascia la visione del film in preda ad una serie di domande opprimenti: chi è Saya, da dove viene, perché uccide, anche lei è un chirottero, perchè proprio lei, è l’ultima di quale stirpe, cosa le è accaduto, quanti sono i chirotteri, cosa vogliono dall’uomo? E così via, all’infinito, desiderosi di darsi delle risposte. Dunque il soggetto attrae e quando poi si trovano risposte alle domande nella serie Tv, si resta invece delusi dalla scomparsa dei tratti molto poco manga di Saya, sostituiti da un disegno molto più semplice e tradizionale. Tuttavia, innamorati dei due occhi azzurri del mediometraggio, si vive bene anche la serie, comunque ben fatta, alla ricerca della storia di Saya.