Se dovessi paragonare film e romanzo direi quanto segue.
Il romanzo mi è piaciuto davvero moltissimo, è scritto indubbiamente bene: è chiaro, scorrevole, riesce a rendere la psicologia dei personaggi, ma quello che stupisce di più, pur essendo nel suo esprimersi di una notevole complessità, è l'estrema chiarezza nell'illustrare non solo le dinamiche dell'associazione a delinquere della quale parla, ma anche della politica italiana dal 1977 al 1992. Il racconto fa una sorprendente e consapevolissima ricostruzione degli avvenimenti storici (si sente che è scritto da un Giudice della Corte d'Assise), con spiegazioni dettagliate di come funziona (e non funziona) il nostro sistema giuridico; la ragnatela che tesse nella vicenda narrata e in buona parte, plausibilmente, nella realtà, i rapporti tra politica, mafie di varia natura e campaniliste, risulta illuminante. Ne deriva l'immagine di un' Italia costantemente divisa in grossi gruppi e famiglie di stampo ancora medievaleggiante, dominata dalla mentalità intera e particolarissima di un popolo comunque e sempre vincolato alle sue differenze regionali e allo stesso tempo in qualunque epoca riconoscibilissimo. La padronanza dello scrittore dei principali dialetti nazionali amplifica il senso di realismo della vicenda, ricordando negli accenti romani la scrittura pasoliniana alla quale De Cataldo si rifà apertamente, citando anche il personaggio a più riprese. Ci si cala subito nella vicenda che è ben più complessa e coerente del film. Quest'ultimo in effetti è sicuramente riuscito nel rendere le dinamiche psicologiche del gruppo, il regime di fedeltà e rispetto tra i protagonisti, i meccanismi di speculazione economica e associazionistica portati avanti da figure come quella del Libanese o di Dandy, ma soprattutto gli sviluppi umani, i legami amicali tra questi numerosi personaggi.
Dunque ci si trova di fronte ad una vasta galleria ti tipologie umane e criminali, smorzate nella loro cruenza dall'adozione di soprannomi particolarissimi, che ci calano ulteriormente nella romanità della situazione e che sempre nell'ottica di un'impresa narrativa notevole (600 pagine belle fitte) rendono note motivazioni personali, condizione sociale e dinamiche psicologiche e caratteriali di quasi tutti i personaggi (che sono moltissimi, dunque tanto di cappello), riuscendo a collegarli tutti uno all'altro: buoni e cattivi, poliziotti e giudici, corrotti e menti supreme, mafia napoletana, romana, siciliana, calabrese, sarda, milanese, perfino cinese, artisti, appartenenti al mondo del cinema, della televisione, dello spettacolo in generale, spacciatori, drogati, prostitute, padri di famiglia, piccole menti del mondo della politica e grandi architetti silenziosi che tengono letteralmente in mano i fili della polis italiana, gestendola come se si trattasse di un gioco (e forse lo è). Avvocati abilissimi, corrotti o semplicemente consapevoli della fatuità della legge, giocatori, anche in questo caso, poliziotti corrotti e integri fino alla morte, giudici sporchi e scrupolosi ma senza abbastanza coraggio o con troppe cose da difendere…Nel libro di De Cataldo c'è veramente di tutto, tutta l'Italia degli ultimi trenta, quarant'anni e non solo, ma in una vicenda che ha ordine preciso, in cui tutto torna e nella quale i confini tra buono e cattivo si dissolvono completamente in quello che sembra un generale sopravvivere e "mangiare", davvero molto italiano. La cosa che mi lascia più perplessa, pensando dunque al film come in parte riuscito nel raccontare le vicende del gruppo che ruota attorno a i tre poli: Libano, Dandy e Freddo, con le loro differenti personalità e della banda in sé a livello di spiegazione del loro effettivo impossessarsi di Roma per un certo periodo di tempo, creando un qualcosa di simile alla mafia che tutti abbiamo in mente, ma con spiccati accenti di romanità, dunque particolarissima (anche la figura del Secco funziona abbastanza bene nel film), quello che proprio non torna, dicevo, è la figura del commissario Scialoja (interpretato in maniera pessima da Stefano Accorsi, credibile solo nell'aspetto). Leggendo il romanzo davvero ci si chiede a che scopo inserire anche nel film la sua figura snaturandola così tanto. Nel testo Scialoja si fa assoluto protagonista, nesso fin dall'inizio del singolare rapporto tra forze dell'ordine e del disordine, coscienza ambigua e tormentata da una coerenza che cerca e che alla fine si rassegna a non trovare: la sua è una figura interessantissima, che rende l'idea dello sviluppo delle idee, dell'amarezza di accorgersi dell'impossibilità di cambiare un sistema così radicato nella società non solo italiana, di quanto sia inutile la lotta del singolo o anche del gruppo, davanti a dinamiche di potere ben più alte e allucinanti, che sembrerebbero lontanissime dalla vita di una qualunque persona che si possa definire onesta e che invece scopriamo già appartenerci. La figura di Scialoja dà senso in effetti a tutto il racconto, lo porta, al di là delle dinamiche della vicenda, ad una specie di morale molto amara e assolutamente vera: è lui che crea i nessi, è attraverso i suoi occhi e quelli del giudice Borgia che si legge la storia di una guerra fredda tutta pizza, lupara e studenti borghesi, mentre il Vecchio, Zio Carlo e il Maestro muovono le marionette della nazione piccola piccola in un intrigo che si fa europeo e poi mondiale. A parte altre differenze: il Freddo che viene fatto morire in maniera eccessivamente scenica, tanto per aumentare il pathos del finale, Roberta che gli viene fatta uccidere prima, anche qui tanto per dare allo spettatore succulenta materia tragico-amorosa (Placido, ma che fai?!). Insomma, non si può dire che il film non sia fedele al romanzo, in buona parte nello spirito e nella resa di atmosfere e vicende (ma sono così tante che pur avendone escluse una marea è inevitabile che ci riesca lo stesso), tuttavia non coglie il senso veramente politico del romanzo, resta in superficie, ci fa vedere qualcosa, non spiega molto e azzarda troppo a livello visivo, creando sproporzione tra contenuto e forma.
Il rapporto di Dandy con la mafia siciliana, che ben si adatta nella forma alle sue idee di uomo d'onore e il rapporto di questa con i servizi segreti italiani si intuisce e si capisce anche il rapporto morboso, strano, alterato e allo stesso tempo naturalissimo, animale, tra uomini e donne, in particolare nel triangolo amoroso "Dandy-Patrizia-Scialoja", ma il discorso sulla logica del potere, l'inevitabilità di sottrarsi a un destino mai nemmeno pensato per il commissario nel momento in cui Il Vecchio, detentore dei segreti della Repubblica, gli passa il testimone come una lama da ghigliottina, sottolineando ancora una volta come anche chi detiene potere sociale sugli altri e sugli eventi, ma non sulla vita e sulla natura, non possa nemmeno sottrarsi a questo stesso. Tutto questo insomma, dove sarà finito?!
Prima di leggere il romanzo pensavo che il film non fosse un capolavoro, avesse ecceduto e tuttavia restasse interessante…lo è ancora, non è male, ma non ha reso: se il tentativo era quello, non ha restituito lo spirito e gli intenti del racconto, ha parlato solo di un gruppo di amici malavitosi (e questo l'ha fatto bene) e ha fatto vedere, ma non capire, un po’ di attualità italiana.
Consiglio senza alcun dubbio la lettura del romanzo che riprenderei anche adesso, tra l'altro specchio di un notevolissimo bagaglio culturale generale di De Cataldo, mentre sul film conservo le mie perplessità, soprattutto sulla regia. La fotografia invece ha saputo rendere, assieme alla scenografia, molto bene le atmosfere, che in effetti durante la lettura si immaginano simili.
1 commento:
Recupererò il libro prima o poi, anche se mi sa che mi toccherà farmelo mandare dall'Italia. Il film invece lo lascio da parte per adesso.
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