L’intera pellicola, al di là del racconto vero e proprio, sembra giocare simbolicamente e come struttura sulla visione e il riconoscimento di sé stessi secondo un senso ormai diffuso di sdoppiamento e quindi spesso solo attraverso l'occhio della macchina fotografica: unicamente mediante la continua rappresentazione di noi stessi intesa come specchio impietoso.
L’intera pellicola è girata in bianco e nero e virata blu, propriamente in blu e nero, molto sgranata, probabilmente per sottolineare ancora una volta l’effetto di analisi ed ingigantimento della realtà propri del mezzo fotografico, secondo la sana tradizione che va da Blow Up in poi. L’uso emotivo del colore in questo film ricorda i migliori e più audaci esperimenti di Kurosawa, non a caso altra fonte d’ispirazione del regista, soprattutto mi fanno venire in mente quel gioiello che è Dodes’ ka-Den (1970, in cui i verdi che contaminano letteralmente l’ambiente restituiscono l’angosciosità di un mondo completamente alla deriva, sia fisiologica che psicologica.
E’un Antonioni del cinema giapponese questo Shinya Tsukamoto, che produce i suoi film integralmente, vecchio stile, curandone ogni aspetto: la fotografia, l’illuminazione, il soggetto e la sceneggiatura, arrivando a montare individualmente ogni film. Un vero filmaker, spesso anche attore nei suoi film, apparentemente incurante delle caratteristiche industriali della sfera del cinema e amante delle atmosfere cupe e Cyberpunk dei film di Cronenberg (e si vede).
Una coppia curiosamente assortita comprende una giovane e bellissima donna, Rinko, (splendida Asuka Kurosawa), impiegata in un centro di igiene mentale e suo marito, Shigehiko, un uomo molto più anziano di lei, insignificante e anonimo, vittima delle proprie manie, tra le quali un folle bisogno di igiene a tutti i costi e la vera e propria paura del proprio organismo e dei propri umori. Tra i due coniugi in ogni istante del film traspare sentimento, in particolare (ed incomprensibile) modo da parte di lei, che ha cercato forse in quest’uomo qualcosa di rassicurante di cui aveva bisogno, ma la vita dei due sembra anche rassegnata ad una soffocante monotonia, alla freddezza e alla totale mancanza di scambi d’affetto e di una qualunque forma di sessualità. Tutta questa mancanza di vita, il costante contatto con la sofferenza e la follia altrui (anche la madre del marito è pazza e lui non è proprio normale), fanno ammalare la giovane di tumore al seno. A quel punto un fotografo, interpretato dallo stesso Tsukamoto, al quale lei ha salvato forse la vita o che comunque l’aveva contattata telefonicamente restandone colpito, avendo compreso, dato che anche lui è malato di cancro, il suo malessere, inizia un gioco sadico e inizialmente molto perverso di liberazione della libido della donna, costringendola, attraverso un “ricatto fotografico”, a mettere in pratica i suoi desideri più segreti (intendo quelli di Rinko). La vicenda si svolge per tutta la prima parte del film in un’atmosfera sospesa, di vera angoscia, amplificata dalle immagini di un’anonima metropoli giapponese malata e piovosa, grigia e soffocante, vista sempre e solo nei dettagli e quasi mai per intero. Questo tipo di visione, molto frammentaria e puramente fotografica, porta in ascesa la tensione dello spettatore calando i personaggi in posti assurdi e irriconoscibili, come la fabbrica in cui una serie di uomini in giacca e cravatta sono costretti, attraverso monocoli, ad osservare scene di morte o di violenza, in un clima che non è possibile ricondurre né alla finzione, né alla realtà. Alla fine il fotografo, testimone del suo stesso dissolversi, si trasformerà da persecutore in una specie di angelo vendicatore (altamente simbolici sono il bacio che dà a Shigehiko prima di punirlo per la sua cecità, o i tentacoli di plastica nei quali sembra lo voglia strangolare), che farà capire ad entrambi, ma soprattutto al marito sopito, l’importanza di ognuno di essi per l’altro e venire alla luce, sia pure bruscamente, la loro bellezza. L’uomo amerà il corpo non più perfetto della donna, liberatosi da tutte le sue distruttive ossessioni, in un conclusivo e liberatorio atto carnale. Un lieto fine dunque, anche se tirato per i capelli e che non lascia tranquilli, anzi, che fa pensare alla fragilità umana, alla follia e a quanto poco possano durare i momenti di felicità che spesso non si è nemmeno in grado di autoprocurarsi. Un finale che non concede sicurezze nemmeno dopo l’ultimo dei titoli di coda.
A Snake of June è un film che consiglio di vedere, in nome dell’originalità delle forme, per il profondo senso estetico, per non rischiare di diventare troppo trappola di sé stessi, per non avere paura delle contaminazioni. Anche questa una pellicola estrema che o piace o non piace, ma almeno viva e di sicuro effetto, vera antitesi del patinato.