Direi che sono una di quelle persone che possono ritenersi accanite seguaci di un certo tipo di commedia che ormai da diversi anni sguazza nell’ansa di un genere alla sorgente del quale metto film come The Royal Tenenbaums (2001) e Rushmore (1998), entrambi di Wes Anderson. Non giunge dunque del tutto inaspettato un lavoro come quest’ultimo film di Noah Baumbach (2005), che sotto molti punti di vista soddisfa in gran parte le aspettative di chi è corso a vederlo, consapevole della comune sensibilità letteraria di Anderson e Baumbach e del fatto che quest’ultimo è stato anche il suo sceneggiatore per Le Avventure Acquatiche di Steve Zizou (2004). In effetti è vero, si ritrova un po’ quel che ci si aspettava di incontrare, ma dal mio punto di vista stavolta anche molto di più: la commedia riduce il proprio spazio vitale per lasciare aria al dramma e in maniera estremamente verosimile. Probabilmente parlo solo a nome di coloro che hanno una precisa estetica e sensibilità, perché film come questi, che dicono molto, che parlano anche di cose importanti, ma soprattutto di contraddizioni e tendendo sempre a sdrammatizzare, spesso estremamente colorati (di nuovo ci si trova di fronte alla coloratissima e molto studiata fotografia di Robert D. Yeoman, che accomuna ancora una volta Anderson e Baumbach, pensando tra l’altro al fatto che il primo, in questo caso, è anche produttore del film), possono anche non piacere per nulla. In questo caso tuttavia Il calamaro e la balena potrebbe piacere un po’ a tutti e probabilmente in particolar modo a chi ha vissuto esperienze simili a quelle raccontate.
Così come ho sentito profondamente i film sopra citati direi che ho vissuto in maniera intensa anche questo, che tuttavia mi ha sorpresa, proprio perché ha saputo assecondare le mie aspettative ma allo stesso tempo stupirmi tradendole. Le atmosfere, la Brooklyn degli anni ’80 con lo zampino scaltro del Super 16, che ricorda molto la fotografia dell’epoca e di intelligentissime riprese che alternano veramente bene, come d’altra parte anche i film precedenti, riprese a spalla, molto mosse, ed altre invece statiche, elaborate e controllate ai limiti del disegno architettonico e della natura morta (ma sempre coloratissima)…sono tutti elementi che contribuiscono a rendere situazioni che portano avanti di pari passo una visione della vita quasi fumettistica e allo stesso tempo una grande nostalgia.
Cosa mi colpisce nuovamente in un lavoro del genere… La sincerità prima di tutto e la grande capacità di rendere certe dinamiche psicologiche senza bisogno di ricostruirle in maniera ossessiva: suggerendole piuttosto. In un momento che vive di ricostruzione quasi maniacale di drammi e tragedie di ogni tipo ( che noia), mi sembra che lavori come questi, di assoluta finzione, possano rendere decisamente meglio (o almeno, questo vale per me) di tanti altri. A parte l’interpretazione eccezionale degli attori e in particolare di Jeff Daniels nel ruolo di Bernard Berkman, sulle quali potrei spendere fin troppe parole e nonostante un finale volutamente lasciato aperto che a molti potrà dare fastidio (ma che io ritengo più che adatto all’argomento stesso del film e sapientemente discreto), io trovo nella storia di Baumbach la facoltà straordinaria di far venire a galla il costante interrogarsi che sta alla base delle dinamiche famigliari e di relazione e in ultimo della comunicazione in generale.
La situazione del divorzio è resa benissimo: nonostante il matrimonio sia stato anche positivo e le persone verosimilmente non smettano di volersi bene, tuttavia l’esperienza finisce, quasi per caso, per scelta arbitraria, come spesso accade, senza effettive spiegazioni razionali, ed ecco che ognuno riveste il proprio ruolo: la donna è colei che decide, sempre un po’ egoista e ogni volta risolutrice di situazioni ormai statiche, il padre più buono e insicuro teme di perdere i figli, ovvero tutto ciò che gli resta della sua vita e degli ultimi vent’anni (dati anche i frequenti insuccessi in ambito lavorativo), ognuno cerca di sedurre i figli per portarli a sé, si sfoga in massa il proprio egoismo e si teme contemporaneamente di sbagliare, i figli adolescenti che cominciavano a dare forma alla propria personalità vedono sgretolarsi inevitabilmente davanti ai loro occhi il mito dei genitori e li scoprono tristemente esseri umani: dunque impantanati in evidenti contraddizioni, perversioni varie, attrazioni vaghe e via dicendo. A livello estetico la vicenda potrebbe essere vista come un buon stereotipo, ma anche questa volta il film lavora in realtà in maniera molto più sotterranea e le persone vere saltano magicamente fuori da battute, dialoghi, attraverso semplici modi di porre certe questioni, anche solo a partire dallo sguardo di chi sta dietro alle macchine da presa. Non saprei nemmeno come spiegarlo (per questo sono così prolissa): per me questi film lavorano davvero in maniera psicologica (oppure è la mia psiche che ormai è andata a p…). Eppure lo vedo qui, scorrere sullo schermo, il rapporto eccessivamente confidenziale, lusinghiero e distruttivo di un genitore che teme di perderti: vedo uomini e donne veri, estremamente vaghi e labili. Nella risata isterica della madre percepisco l’ironia della sorte, il modo molto umano di superare le cose anche peggiori, così, quasi senza coscienza, e proprio in figure colte, razionali, che sembrerebbero poter calcolare con cura i propri passi; vedo nei personaggi la capacità di giocare sulle proprie parole, sulla cultura e su un certo uso del linguaggio, al fine di manipolare le persone care, per paura, per insicurezza, o semplicemente per proteggersi. In questo film viene resa assai bene la destabilizzazione di una famiglia colta, che comprende la psicologia degli individui e che ride scettica sull’indomabilità dei sentimenti, la personalità di chi sa osservare bene gli atri, di chi analizza e che tuttavia non riesce ad avere la meglio sulla propria vita. Allo stesso modo vedo precise e sfuggenti le figure di adolescenti giustamente in fase di formazione del proprio carattere e che di fronte alle crisi dell’età adulta si trovano ancora di più nella situazione lampante di dover scegliere chi essere, con la consapevolezza di non avere alcuna certezza su presente e futuro.
In sostanza in questo film ogni cosa parla di labilità e di contraddizione, di piccolezza e impotenza, dunque, dal mio punto di vista, di essere umano puro.
Anche il ridimensionamento finale di entrambe le figure genitoriali da parte dei figli, inizialmente schieratisi da un parte piuttosto che dall’altra, e il loro allontanarsi all’improvviso da loro, dinamica naturale in queste situazioni probabilmente accelerata, ma allo stesso tempo inevitabile, mi sembra degna conclusione e conseguenza della situazione che questo spaccato ci vuole offrire.
Se mi chiedessero in un’altra vita di fare film con queste sceneggiature, basati sulle stesse scelte musicali di fondo, su questo tipo di fotografia e con gli stessi ritmi, ci metterei la firma, perché mi ci ritrovo in pieno.
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